Prof. Davide Scarabelli Via Santi, 1 41026
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La sensazione che si prova a scorrere retrospettivamente, e di necessità per sguardi conpendiari, lo sviluppo dell’opera scultorea di Davide Scarabelli, è di una insaziata curiosità, di uno spirito ricercatore che non procede per rigide concatenazioni dei momenti di indagine, secondo una logica lineare e consequenziale. Anzi si concede frequenti divagazioni e anche diversioni di percorso, accogliendo e facendo risuonare, amplificati, i richiami degli oggetti incrociati per strada – ma si incontra e si riconosce ciò che ci corrisponde – e dei materiali elevati alla dignità della forma, voci suadenti di sirene appostate su scogli non infidi, per questo ulisside che ai provvisori approdi attinge idee ed energia per seguitare il viaggio.

Non che consista nel peregrinare di costa in costa l’essenza della scultura di Scarabelli. Se così fosse, con questa sorta di nomadismo, in quanto tema emblematico della condizione dell’artista nel tempo presente, Scarabelli avrebbe anticipato di circa un ventennio la teorizzazione delle trans-maniere che hanno contrassegnato una parte cospicua dell’arte figurativa contemporanea. Egli rispondeva, invece, con prontezza inventiva e direi con un certo estro nativo a scorgere possibilità di fare scultura, alle mille sollecitazioni di un ambiente disseminato di cose o delle loro tracce, ciascuna depositaria di una storia e di una residuale vitalità, purchè sottratta all’abbandono e toccata dalla grazia creativa.

E’ innegabile che dal ’63 – 64 l’itinerario di Scarabelli si sia sviluppato lungo una via maestra ben marcata nelle sue peculiarità formali, una sorta di direttrice che è la risultante delle innumerevoli diramazioni della ricerca, degli assaggi o incursioni compiuti in territori limitrofi a sondarne le potenzialità. A una verifica comprensiva e basata sul confronto delle opere, siffatte ricognizioni non risultano mai sterili  esercizi di stile o vacui sperimentalismi, essendo sempre riducibili ai temi centrali della ricerca, per una qualche acquisizione linguistica o poetica che entra a far parte stabile del bagaglio espressivo.

La peregrinazione dell’artista modenese, difatti si è svolta all’insegna della progressiva definizione linguistica d’un mondo scultoreo i cui tratti costitutivi, nella sostanza, sono stati sempre dichiarati, in ordine alle componenti tecnico-operative e stilistiche del processo formatore non meno che a quelle ideologiche e poetiche connesse alla qualità non neutra dei materiali utilizzati, segnatamente il ferro prediletto e i metalli in genere.

E direi che consista, l’identità di quel mondo, nel grande tema della tensione dialettica dell’arte tra senso dell’ordine e caos, tra materia e forma, tra progetto e destino, come metafora di una condizione umana oggi più che mai dibattuta entro i termini di questi dualismi, resi antinomici dalla presenza discriminante di una tecnologia “fredda” e totalizzante che sembra escludere alternative al dominio del più rigoroso funzionalismo. Bisogna sottolineare che nella nozione di materiale scultoreo sono da includere a pieno titolo gli eterogenei manufatti – specialmente meccanici – che Scarabelli utilizza con straordinaria versatilità fabbrile, manipolandoli come fossero di morbida consistenza plastica.

Particolarmente nel corso degli anni Sessanta, quando più intensa e al limite della rapinosità appare l’ansia di verificare procedimenti tecnici e soluzioni formali, codesti manufatti sono per lo più degli “objets trouvés”, su cui l’artista interviene con operazioni di montaggio o di combinazione e con alterazioni morfologiche più o meno accentuate, al fine di permutarne la figura meccanica e assimilarla alla fisionomia di curiosi feticci, al modo in cui Picasso trasformava in toro il manubrio e il sellino di una bicicletta.

I primi feticci di Scartabelli possedevano uno spiccato carattere ludico, pur nel loro aspetto barbarico di oggetti primordiali. Non avevano alcunché di minaccioso o anche di ieratico e di straniante i “personaggi” puntuti e ferrigni che in quegli anni animavano le piccole ribalte di una scultura a suo modo teatrale, con la quale Scarabelli esprimeva il proprio piacere al gioco delle metamorfosi che si compivano sotto i suoi occhi, dei continui passaggi da un materiale grezzo e magari da una scoria di produzione o addirittura da un oggetto usurato e, dunque, rifiutato, a una struttura tendente al suo assetto formale nell’ordine della geometria solida primaria e di un antropomorfismo che consentiva anche aperture narrative, sul piano di una garbata allusività al contesto della civiltà dei consumi da dove i materiali scultorei provenivano.

In questo caso le sculture funzionano anche in senso critico, così come i materiali di recupero conservano qualcosa del loro passato, e sono reperti testimoni di un’epoca e di una condizione umana, per quanto bisogna dire che Scarabelli, accentuandone ironicamente l’allusività antropomorfica, miri soprattutto alla provocazione immaginativa giocando sugli accostamenti inusuali degli oggetti in inedite conformazioni, rese vieppiù ambigue dall’equivocità degli stessi titoli.

Sono numerose le tangenze dell’operatività di scarabelli con movimenti e personalità artistiche di ampio respiro che hanno affrontato materiali e problemi analoghi. La critica li ha, naturalmente, sottolineati.

A cominciare da Margonari cui non sfuggiva la fecondità immaginativa dello scultore, sino a Marchiori, Solmi, Crispolti e, soprattutto, a Luigi Lambertini che a Scarabelli ha dedicato numerosi scritti scalati in oltre un ventennio e da considerarsi, pertanto, fondamentali per ogni ulteriore contributo. Certo sono stati nominati Gonzales e Tinguely, in quanto devoti rispettivamente del ferro forgiato e saldato in figure totemiche e del rottame rimontato in mirabolanti marchingegni mobili. Sul piano del “ready made” non poteva mancare, ovviamente, il riferimento a Dada e ai meccanismi dello straniamento. Per la tecnica del montaggio di pezzi meccanici in composite strutture, dal cubismo e dal futurismo appare ovvio il passaggio al “costruttivismo” dinamico di Colla e di Mastroianni; così come le accumulazioni e le compressioni nel proseguo praticate da Scarabelli, non potevano non richiamare le lezioni di Arman e di César in quanto campioni di analoghi procedimenti.

Quanto alla componente informale, il riferimento d’obbligo a Quinto Ghermandi, cui lo stesso Scarabelli riconosce un ruolo importante nella propria formazione, potrebbe senza forzature essere integrato con i nomi di Consagra o di Lardera per le consonanze delle opere a risoluzione frontale, in cui lo spazio della scultura è dato per minimi scarti di piani e per lacerazioni della superficie attraverso le quali lo sguardo si spinge oltre lo schermo della materia.

Codesti riferimenti – e numerosi altri sempre possibili, se non già individuati dalla critica – hanno sempre una qualche pertinenza, poiché delineano un’area di insistenza e indicano il tenore culturale della ricerca di Scarabelli, ma non hanno mai carattere di modello. Del resto ogni critico ha sempre precisamente circostanziato la misura e i termini delle consonanze, di volta in volta riconoscendo un ampio margine di “tradimento” delle lezioni maggiori da parte di un artista giovane che andava generosamente interrogando la natura e la storia, la società e il proprio io interiore per dare risposte concrete a un irrefrenabile bisogno di comunicazione attraverso la materia formata.

Se – per fare un esempio – l’uso che Scarabelli fa del “ready made” e la tecnica dello spostamento di contesto ricordano Dada, la successiva elaborazione dell’oggetto in un più composito organismo formale lo allontana dalla provocatoria concettualità duchampiana.

Semmai Scarabelli introduce meccanismi di straniamento per alcuni versi analoghi alla combinazione surrealista di realtà diverse e tra loro estranee, sul piano semantico, e in questo senso le sculture funzionano da macchine psicoattivatrici. D’altra parte, neanche si può parlare del recupero degli oggetti in termini di pura “archeologia” dell’era industriale, la civiltà che si identifica nella cultura del ferro e nel dominio della macchina, ossia i materiali e lo stadio tecnologico con cui preferibilmente si esprime lo scultore modenese (ma non mancano altri materiali, naturali e di sintesi, nel laboratorio di Scarabelli, dal vetro alle resine al legno). Il reperto, difatti, viene sottratto alla pura referenzialità testimoniale nel momento in cui, immesso in un nuovo contesto, è assunto come attore di un gioco delle parti in cui si simula con spiccato “humour”, la commedia umana.

Anzi, sul piano della referenzialità narrativa e del relativo apparato simbolico, intorno al ’70 Scarabelli realizza una serie di opere assai complicate e direi persino didascaliche nella loro struttura simbolica. Sono una sorta di medioevali allegorie che nella riconoscibilità dell’immagine traducono principi morali e concetti filosofici altrimenti destinati a rimanere astratti e incomunicabili.

In questo tipo di opere Scarabelli porta all’estremo limite una componente centrale della sua personalità: la tendenza alla proliferazione immaginativa e alla dilatazione delle forme in una sorta di barocchismo, di esasperazione morfologica della materia cui fa da contrasto, ma inadeguato e anzi continuamente pregiudicato come da una forza inarrestabile, l’opposta necessità all’ordine razionale della forma. Tale ambivalenza, del resto, la si coglie anche dalle parole e dal comportamento dell’artista quando parla delle sue sculture realizzate, di quelle in lavorazione e delle altre solo immaginate o anche appena fissatre in un appunto, ma così numerose e di tale imperiosità nel loro pur labile consistere di progetto, da suscitare in Scarabelli un’emozione urgente e contagiosa.

Resta da dire di Colla e del costruttivismo in genere, per esaurire il panorama delle principali personalità che, appartenendo per una cospicua parte se non per la totalità del lavoro alla cultura scultorea del ferro, sono state evocate a istituire le sostanziali coordinate linguistiche di Scarabelli.

Ora, a me sembra che non si profili la personalità di un costruttore di impianti lineari e dinamici, nell’opera di Scarabelli quale si è sviluppata dai primi anni Sessanta a oggi. Certo non mancano analogie formali, ma riguardano la ricorrenza di determinati morfemi, quali i cerchi o i segmenti arcuati di linee che in Colla o in Mastroianni danno luogo a macchine propulsive del movimento nello spazio, e in Scarabelli fissano semplicemente, intorno al ’68 – 69, alcune varianti tipologiche della figura geometrica piana e delle strutture a molla o spiraliformi che ne scaturiscono, essendo sottoposte a molteplici forze che le, deformano e ne alterano l’andamento. Più che un costruttore idealisticamente lanciato verso lo spazio, Scarabelli è semmai un manipolatore delle forme, delle quali fissa gli stadi di trasformazione. Nel corso degli anni Sessanta e fino alla metà dei Settanta, la ricerca di Scarabelli consiste nel continuo andivenire dal montaggio degli oggetti alla loro decostruzione, dall’integrità della figura alla sua alterazione. E viceversa: dalla primordialità di una materia o di un oggetto residuale alla sua integrazione in un contesto che lo permuta in elemento significante; dalla frantumazione e dalla lacerazione delle superfici alla loro ricomposizione, che è un tentativo di ricondurre all’unità di una forma percepibile e leggibile quel che era diviso in parti che rischiavano la dispersione.

Intervento emblematico, in questo processo continuo di frantumazione e di ricomposizione, è la “sutura”, ossia l’operazione del ricucire due brani separati di un organismo per conservarne l’unità, e meglio sarebbe dire il tentativo di ancorare l’essere, di cui la scultura nella sua fisicità è luogo rappresentativo, a una realtà meno aleatoria dell’effimero nostro passaggio, per sottrarlo alla deriva nello spazio, alla dispersione nel vuoto senza fine.

Formalmente la “sutura” è un intervento grafico-linearistico nel corpo plastico della scultura, una soluzione di continuità talora sostituita, con il medesimo significato di cerniera e di aggancio, da giunti e ancoraggi meccanici dei volumi tra loro e alla terra, da cavi che, isolati o a fasci, fungono da vettori energetici e subiscono nel loro percorso flessioni che ne accentuano la plasticità. Altrove la “sutura” non è praticamente realizzata con l’intervento di cucitura delle parti, ma è presupposta nella presenza di fori disposti lungo i lembi delle forme, le slabbrature delle ferite, gli squarci della materia che in tal modo risulta in più punti incisa e spazialmente segnata.

Nel concetto di “sutura” direi che sia da includere, tuttavia, ogni operazione intesa a compattare una materia disarticolata, a delimitare il campo delle masse plastiche agitate, a fasciare in una struttura rigida vettori diversamente orientati nelle direttrici spaziali. E’ “sutura” una concatenazione di forme modulari di cui offre numerosi esempi la tecnologia meccanica. Un’accumulazione di anelli determina la continuità della forma che si dirama nello spazio come una colonia corallina, ed è “sutura” come lo è una compressione che trasforma in blocco aggrinzito di potente modellazione, lamiere già piane e inespressive, anonime e separate nella loro natura di meri prodotti tecnologici.

Scarabelli, insomma, pone con l’espediente della “sutura” il presupposto per ricondurre a unità teorica la molteplicità delle forme e degli organismi scultorei in cui si riflette la varietà del mondo fenomenico, in tal modo sperimentando nel corso d’un decennio abbondante di ricerche, una ricca gamma di situazioni scultoree sempre imperniate sul principio della riduzione dell’informe e dell’inarticolato all’unitarietà di una figura geometrica, alla compattezza di una massa plastica spazialmente delimitata, alla complessità di una struttura.

In questo saggiare le potenzialità del mezzo scultoreo egli è animato, negli anni che vanno sino allo scorcio dei Settanta, dal fervore sperimentale di una naturale “curiosità”, la quale non teme le contaminazioni linguistiche, le invadenze sociologiche e persino le proiezioni psicologiche provocate da un processo identificatorio che facilmente assegna una funzione rivelatrice di stati d’animo alle metamorfosi degli oggetti e dei materiali in piccoli teatri di accadimenti, talvolta allusivi a situazioni di vita quotidiana, talaltra mantenuti su un più sottile registro ironico al limite del surreale, e con un uso stilistico del mezzo che passa agevolmente dalla figura di più rigoroso impianto geometrico a quella esplicitamente votata alla accidentalità informale.

Intorno al ’76 tuttavia si placa codesto furore sperimentale. Il dettato si fa più essenziale e giocato sui termini estremi del dualismo di cui si è detto. Scarabelli in definitiva riduce alla dialettica pura “forma informe” il precedente gioco delle contaminazioni e delle invadenze di campo. La formatività è decisamente identificata in figure geometriche solide che diremmo primarie, da vocabolario minimalista, in metallo. L’informe è una materia sintetica che fuoriesce dai rigidi parallelepipedi, evidentemente attraverso una ferita o una spaccatura, come una suppurazione che si enfia e fluisce in densi filamenti, accumulandosi sul terreno in ponticelli ripugnanti per il loro aspetto di materiale organico come rigurgitato dal ventre della terra.

C’è un dato che mi par importante sottolineare in questo periodo centrale nello sviluppo della scultura di Scarabelli. L’artista ha semplificato il proprio linguaggio per radicalizzare anche ideologicamente il discorso scultoreo a una sorta di automatismo azione-reazione, nello scontro tra razionalità ordinatrice e natura. Le figure solide rigorosamente definite sono talora concepite come veri e propri cunei che penetrano il terreno, violandolo e provocando la fuoruscita del magmatico umor vitale. E’ una ferita che può anche essere letta come una sorta di fecondazione. Altrove è la natura che prepotentemente squarcia le nette pareti delle prismatiche stele, avendole invase e pervase della propria essenza fluida. Siamo in tutta evidenza a una metamorfosi, dal rigido al molle, anche se i due stadi della permutazione rimangono distinti e dunque ancora compongono un dualismo dialettico o conflittuale che dir si voglia. Scarabelli è in questo periodo a una svolta del suo lavoro. Nel corso di un paio di anni realizzerà sculture decisamente informali, utilizzando solo metalli (interessantissime e originali le alveolare sagome attraversate da tubi e sottoposte a compressione) oppure combinazioni di metallo e resina, per ripetere nella mutata situazione plastica la suppurazione magmatica dall’imo della materia. In questo caso l’aspetto biomorfico predomina su quello critico relativo alla dialettica tra ordine e caos, tra razionalità e istinto del ciclo precedente. Rimane, peraltro, rigorosamente delimitato e omogeneo il tema scultoreo e assai coerente lo stile, quasi lo scultore avesse avvertito la necessità di imporre una disciplina ferrea all’estro immaginativo del decennio precedente, non già per ripudiarne gli esiti formali nel ventaglio delle esperienze affrontate, ma per farne confluire le sollecitazioni su una più matura visione plastica.

La stagione successiva è una felice elaborazione del tema informale sia nei bassorilievi morbidamente modulati in resina o più aspramente profilati nelle lamiere sottili di metallo, sia nella tridimensionalità delle opere in cui si compie una permutazione della figura geometrica rigida (il cilindro) in molli superfici che si piegano su se stesse come pressate dl loro stesso peso.

L’intuizione è felicissima poiché consente di uscire dall’antinomia “forma informe” cogliendo per l’appunto il momento critico del passaggio da uno stadio all’altro, ossia visualizzando un processo che ha una certa durata e che, bloccato nella fissità della materia, produce uno straniamento simile a quello degli orologi molli di Dalì.

E’ una scoperta fondamentale che dischiude un nuovo versante operativo, cui occorre provvedere un’adeguata tecnologia. Scarabelli ha una pausa di approfondimento e di riflessione dalla quale maturerà l’esito definitivo della sua ricerca. Verso la fine degli anni Ottanta riprenderà con rinnovata lena e una straordinaria lucidità il lavoro, avendo ormai acquisito gli strumenti per trasformare in materia malleabile il metallo formato in figure solide, che diventerà la materia dominante e capace di interpretare, la dialettica del rigido e del molle, dell’organico e del geometrico precedentemente affidata a distinti eteronomi materiali.

La tipologia delle figure plastiche e delle modalità di intervento è abbastanza variata, ma non certo esuberante come un tempo, negli anni giovanili.

Scarabelli attinge in severità e in tensione plastica quel che abbandona in estensione e in diramazione stilistica. Il ferro si presta docile a un uso che non è più assolutamente febbrile, al modo delle accumulazioni costruttiviste tradizionali, o passivamente malleabile come nelle compressioni di César, ma scultoreo nel senso propriamente plastico del termine.

Scrabelli modella oggi il ferro come fosse marmo o morbida creta. Lo fa ricorrendo alla compressione a caldo per ottenere mossi panneggi che interloquiscono con i conclusi solidi geometrici regolari, soprattutto sferoidi anche di grande diametro, le cui rotondità polite sovente si spaccano per rivelare l’interna magmacità della materia pulsante.

Altrove sono i parallelepipedi e i cilindri che subiscono mutazioni per compressione, e si aggrinzano in fitti convolvoli anulari o si spaccano come melagrane mature. Ove più squisitamente plastica è la modulazione delle superfici compresse, Scarabelli perviene a esiti formali di intensa espressività, ma anche di grande misura compositiva, di un respiro che vorrei dire classico e da scultura marmorea.

Talora al puro modellato subentra la visualizzazione del processo meccanico che determina le deformazioni. In un caso Scarabelli addirittura esemplifica il procedimento raffigurando la compressione di un cilindro metallico mediante un torchio manuale (in realtà lo scultore lavora con presse industriali e una tecnologia elettronica che gli consente di intervenire su macrostrutture).

Ma certo più interessante è la serie delle opere in cui l’azione sul cilindro è compiuta da un altro cilindro più sottile che si avvolge a molla inesorabile sul corpo antagonista, e della propria energia lo imprime e lo suggella restandone, però, irrimediabilmente preso, e dunque legando il proprio destino di agente a quello dell’oggetto agito.

Come dire che nella continuità dell’essere si risolve ogni possibile antinomia e la forma non è che l’assetto provvisorio e percepibile di un processo la cui verità è il divenire, la mutazione perenne di stato, la compresenza di necessità e di libertà.

Alla provvisoria certezza dell’opera ci rivolgiamo nella speranza che lo stato di grazia creativa ci illumini e ci faccia intuire la sintesi finale dell’essere, l’utopiadell’integrità perduta nell’infanzia del mondo. I grandi dischi di Scarabelli, oggi dischiusi a irradiare energia cosmica, i lunghi cilindri elevati al cielo a mo’ di stele sacrali, l’ampia scultura agibile che appare come una casa aperta a che voglia rifugiarvisi, sono segni anche di questa speranza, che colma l’intervallo tra due vuoti in cui consiste il nostro passaggio fulminante sul vettore terra alla deriva nell’universo.

 

Nicola Micieli

(Dal catalogo mostra Galleria d’Arte contemporanea di Palazzo Ducale – Pavullo 1992)