Prof. Davide Scarabelli Via Santi, 1 41026
Pavullo nel Frignano (Mo) - Italia Tel/Fax 0536 20675
|Home page|Contatti|   Italian  French English German 

 

 

La modulazione bruna e massiccia nei suoi spessori, che la lastra di ferro possiede in sé e che nelle opere più recenti di Scarabelli e accresciuta da un forte e mediato fluttuare di pieghe, morbide ed immutabili ad un tempo, può portarci a pensare di primo acchito a realtà lontane quanto suggestive e cioè alle dolci di veli e di pepli che il candore del marmo ci ha tramandato nei secoli. Ecco riaffiorare nella memoria ritmi essenziali e plastici di fidiaca origine e quindi quelli più mossi e sensuali di un’ assorta e dolce fanciulla d’ Anzio e quindi ancora, protèsi nel vento, quella della suprema e trionfante e percossa Nike di Samotracia. E’ questione solo di un attimo. Realtà di diverse origini e discendenze subentrano, altrettanto ricche di rimandi. E’ la realtà fabrile di armi e di corazze, ma anche di utensili e di attrezzi che mani forti e virili hanno impugnato stagione dopo stagione ai piedi di quel castello che fu di Montecuccoli, il leggendario condottiero, vittorioso nel 1664 contro i Turchi a San Gottardo, laddove scorre il Raab. Così remoti clangori di battaglie si uniscono immediatamente e si sovrappongono i silenzi operosi della campagna che dell’ alto Frignano scende a valle tra messi e filari e ciliegi.

Il sibilo di un cannello ossido – acetilenico s’ impone improvviso assieme a sprizzi di scintille e acri fumi. La lastra si annerisce, si arrossa ed è pronta per quella violenza, attentamente calcolata, che le darà quelle pieghe che lo scultore ha pensato e voluto. La lamina, proprio per questo concatenarsi di forme, è diventata volume, un volume che con tutti i suoi rilievi, e di conseguenza con i succedersi delle ombre che la luce disegna, si propone perentorio e morbido ad un tempo. E’ avvenuta una sorta di trasfigurazione e di metamorfosi, ulteriormente accresciuta da quella dialettica che in varie opere esiste tra elementi di carattere geometrico ed il cadenzato e differente ritmo delle pieghe del ferro.

Davide Scarabelli non è certo nuovo ad imprese del genere. In tutto il suo lavoro, e nell’ ambito coerente di un succedersi do momenti, esiste una particolare carica talvolta di origine fantastica ed ironica, in altri casi di graffiante ironia sino ad essere grottesca. Così, anno dopo anno, egli, da scultore di vaglia, ha saputo scoprire il linguaggio dei vari materiali usati, ha saputo trasformarli trasportando per l’ appunto su di un piano del tutto diverso la loro originaria realtà di relitti del mondo tecnologico, con un calibrato montaggio e con l’ assemblaggio di elementi, ma anche di materiali diversi, acciai di differente natura, e poi resine e cristalli uniti e giustapposti, frantumati e riplasmati a seconda dell’ opportunità.

Di una dimensione onirica e fantastica si è già detto e pure di una vena ironica. C’è da aggiungere ora la componente organica che molte volte affiora in queste invenzioni tra il surreale ed il metafisico, a seconda che si pongano nello spazio immobili ed altere , sia che il loro slancio palesi una dinamica tutta interiore che la forma propone al di fuori ed al di là dal suo stesso modo di essere. Adesso questa sorta di metamorfosi  della lastra ripropone nella sua materia e ferrigna – e viene da ricordare l’ ormai lontana Sutura del 1970 – un dialogo di forme turgide e morbide che, se possono anche chiamare in causa la lezione futurista, non sono neppure prive di quella carica espressiva che nell’ Informale ebbe la sua acme. Davide Scarabelli insomma fa rivivere la materia che diviene qualcosa d’ altro con un’ avvincente incalzare di nuove e multiformi identità.

 

Luigi Lambertini  

LUIGI LAMBERTINI

 

Quando Davide Scarabelli parla delle sue sculture, le parole escono a raffica e con esse immagini di cose e di oggetti, proposti quasi per essere, sia pur verbalmente, toccati e soppesati come se fossero davvero reali nella loro concretezza, tanto è forte e pulsante nell’artista il piacere per l’oggetto in sé e per la sua forma, ma non soltanto.

E’ quasi una frenesia inarrestabile; è, in altre parole, la gioia di svelare un mistero recondito, continuamente reinventato e riscoperto da Scarabelli in qualcosa che essendo, come vedremo, nient’altro che un rottame, se pur possiede una sua magia, non era certo nato con quella destinazione; il mistero dunque dell’oggetto, meglio, la scoperta della sua provocazione fantastica.

Questo è il punto. Come vedere la realtà, come muoversi attraverso essa e riscoprirla, esserne vittoriosamente partecipi, integrarvisi senza finirne schiavi, mortificato dall’anonimato, dallo stereotipo del consumo, della meccanica di un dare e di un avere, di un adoperare e di un rifiutare subito, dello scartare ciò che prima veniva salutato dall’entusiasmo, magari un tantino infantile, per la novità, per l’oggetto nuovo di fabbrica.

Ogni epoca ha lasciato le sue tracce, i suoi monumenti, ricchi o poveri, a seconda del caso, che sono vestigia dell’uomo e delle sue opere, del suo orgoglio e delle sue contraddizioni, delle sue angosce, delle sue speranze e della sua fede.

Wiligelmo scolpiva nel Duomo di Modena per la gloria di Dio e la salvezza dell’umanità e si misurava con la scheggiosa durezza di quel marmo che, secoli dopo, avrebbe lasciato apparire toni di rosso, quasi che si fosse cercato di uniformarlo al colore risonante del cotto dei mattoni della superba fabbrica del Lanfranco.

Cosa lascerà allora il secolo XX, ammesso che si riescano a salvare le grandi testimonianze del nostro passato dall’inquinamento e da altro ancora?

Forse resterà la formula della fissione nucleare o il prototipo di un antenato dei futuri demiurghi dell’umanità, i computer.

Speriamo che non sia così soltanto, e soprattutto in una chiave tanto negativa.

Ma, se adesso, cavando ora qua ora là, vengono ancora alla luce delle selci, tra millenni se ancora vi saranno archeologi, costoro dovranno confrontarsi con una miriade di bottigliette, di sacchetti e di altri oggetti di plastica, tanti da riempire – se avranno un qualche interesse – depositi e depositi di musei, come tuttora accade con le anfore olearie, e troveranno inoltre spezzoni di motori, carcasse arrugginite, quali enormi crani, di macchine belliche o soltanto familiari scatolette, una volte lucide e colorate per il piacere di gite ferragostane.

Lasciamo tempo al tempo e rientriamo in una dimensione meno lata, all’interno della quale tuttavia sussiste qualcosa di questa proiezione che ognuno potrà interpretare a suo modo; superati i tempi storici e le ere connesse, ritorniamo ad una dimensione della quotidianità, ad un rapporto più stretto con ciò che ci circonda.

Pure in questo caso due sono le possibilità che si presentano: essere condizionati sul piano esistenziale da quello che è in fondo un anonimato alienante oppure scavare al suo interno alla ricerca di quegli stimoli e di quei motivi fantastici che nonostante tutto la realtà dei nostri giorni possiede.

Ed è quanto davide Scarabelli compie con la sua scultura al fondo della quale esiste per l’appunto un’indicazione di questo genere.

Certo, vi sono anche altre motivazioni, ma il discorso di base mi sembra che sia proprio questo e cioè una sorta di poetica integrazione con i tempi moderni, usando come tramite quelli che forse in futuro saranno dei reperti, mozziconi di una precisa stagione.

Sotto tale profilo pertanto quella singolare golosità di Scarabelli  per il piacere della forma di un oggetto qualsiasi, di un pezzo di macchina, tubo, dado o bullone, centina od altro ancora, golosità, dicevo, tutta particolare di Davide, non è più soltanto ed unicamente ascrivibile ad un fatto dettato da una curiosità e da un puro e semplice entusiasmo di tipo formale.

Il rottame, il reperto di un’archeologia industriale inarrestabile, rappresenta per lo scultore modenese un punto di contatto con la realtà dei nostri giorni, è, in altre parole, una sorta di cerniera che lo lega al presente ed al passato e che lo porta a proiettarsi in avanti ed in più direzioni sul piano fantastico.

Mi spiego meglio:se infatti questo suo atteggiamento, che è basilare nel suo lavoro, lo fa disancorare dal contingente e pertanto risulta essere una sorta di proiezione al di là dei confini di un certi tipo di realtà, contemporaneamente, per le implicazioni fantastiche che tutta la sua opera possiede, costituisce a sua volta una palese provocazione per il destinatario dell’opera stessa.

E’ come dire che, mentre ogni scultura, secondo certe regole compositive o di assemblaggio, si distacca dalla originaria destinazione delle parti da cui è costituita, al tempo stesso, e proprio per questo, diviene un costante suggerimento di immagini, ma anche di riflessioni per chi guarda.

L’aspetto formale, dunque, non è più soltanto fine a se stesso; c’è dell’altro ancora che lo travalica e che salda la scultura in sé ai momenti che viviamo, ai tempi che l’hanno generata  di cui è un riflesso.

In questo senso ritengo vada individuato quel lungo filo – è ormai ventennale – che coerentemente caratterizza l’opera di Scarabelli; in questo senso trovano pure diritto di cittadinanza le numerose definizioni e le letture fatte da vari studiosi (ivi compreso chi sta scrivendo), e non solo a livello di semplici proposte.

Sto pensando ad indicazioni di notevole interesse a partire da quella di Renzo Margonari che nel ’69 fu tra i primi ad impegnarsi in un esame, necessariamente acerbo come del resto lo era l’opera dello scultore, esame pur tuttavia ricco di motivi, che sarebbero poi stati confermati nella progressione di un discorso apertissimo e davvero dialettico da parte dell’artista; ebbene, Margonari già allora puntava ad enucleare una “componente fantastica”, “una nuova immagine di vita”.

Un paio di anni dopo (Scarabelli aveva ulteriormente definito i caratteri della sua ricerca) ritenevo che il suo particolare recupero e montaggio di strutture e di forme fosse da ascriversi ad una “indagine e sperimentazione conoscitiva” che avveniva per “sintesi allusive”, non senza aspetti ironici e grotteschi, tanto da rendere possibile financo una lettura “in chiave simbolica”.

Giuseppe Marchiori avrebbe poi nel 1972 unito – la sfumatura ha un suo peso – all’umore fantastico “un tono di ironico divertimento” confermo inoltre quanto avevo scritto circa la posizione di Scarabelli nei confronti della realtà come “uomo coscientemente inserito nella società che lo circonda nella quale avverte l’esigenza della riaffermazione dei valori dell’individuo”.

Mentre Germano Beringheli, nell’anno successivo perveniva all’individuazione di una particolare “carica emblematica” puntando su accenti neometafisici, Franco Solmi nel 1975 riprendeva l’argomentazione e, ridimensionata una forse eccessiva “giustapposizione di momenti (l’organico, l’inorganico il naturale e il febbrile, il reale e il fantastico)”, compiuta sino allora, giungeva ad evidenziare, all’interno di un siffatto “rapporto – distacco dell’artista di quel che diciamo irreale”, il “rilievo delle interiore processualità che della dialettica è la condizione prima.

Enrico Crispolti infine, nel ’76, avrebbe posto l’accento su aspetti perfino onirici e su “emblemi nei quali riconosce una propria condizione esistenziale, di declinarle in uno scandaglio psicologico ed inquieto”. Come si vede le argomentazioni, sarebbero altre ancora, non mancano di sfaccettature che, a loro volta, sono lo specchio evidente della poliedricità dell’opera di Scarabelli tuttora intento, come venti anni fa, a “scoprire da scultore il linguaggio dei vari elementi sui quali intervenire, ora modificandoli, ora individuandoli nella loro interezza, per procedere poi con precisi ritmi al loro montaggio. Abbiamo un’operazione che si basa su di un atto che è fondamentalmente critico, per l’appunto su di una “sperimentazione conoscitiva”.

In tale senso il lavoro di Scarabelli trova una sua collocazione nella grande pagina della scultura contemporanea, in quel dibattito che chiama in causa ben più di una desinenza e che per siffatta complessità di integrazioni, denota la puntualità della ricerca dello scultore modenese.

Alla sua innata invenzione di forme si abbina insomma una singolare curiosità intellettuale. Fondamentale al riguardo fu l’ incontro con Quinto  Ghermandi, allorchè quest’ ultimo nel 1964 venne chiamato a dirigere a Pavullo una “Scuola artigiana per la lavorazione del ferro e della pietra”. Se infatti l’ attenzione critica di Davide – a quel tempo dipingeva – aveva avuto già modo di esplicarsi con soggiorni e viaggi a Parigi e Roma, fu proprio con Ghermandi, del quale era divenuto assistente, che trovò il suo definitivo indirizzo nella scultura; da qui il piacere della costruzione di un’ immagine, della lettura di un percorso in una superficie sino a scendere al suo interno,nel suo mistero di realtà tangibile e definitiva nello spazio. I riferimenti, per rendere più concreta l’ area storica cui ho appena accennato, sono numerosi e non si limitano unicamente all’ aspetto formale. C’è infatti, a ben guardare, all’ interno di tutta la vicenda che si dirama dalle avanguardie storiche, una inquietudine esistenziale che si contrappone, oltre al resto, alle presunte certezze, non soltanto estetiche, del passato e che coincide anche con la ricerca di una nuova identità. La menzione per tanto della stagione surrealista e prima ancora di quella futurista, cubista e Dada, delle esperienze sull’ oggetto trovato (Ricasso, Schwitters, Duchamp ecc. ), delle lezioni che vanno da un Gonzales a Chillida e Tinguely, ai nostri Colla e Garelli, a quella di Cèsar – prima con le “Colate” di poliuretano espanso – la menzione di tutto ciò, dicevo, non costituisce forse, e con le motivazioni più articolate, un indispensabile retroterra per un attenta lettura dell’ opera di Scarabelli? Ed se ora si vuol considerare rapidamente per esempi il suo lavoro sino ad oggi, non si può non soffermare l’ attenzione su di un primo gruppo di opere degli anni 1964-’65. Già qui il rottame industriale serve a creare, attraverso accentuazioni della sua espressività, ottenute con lacerazioni e schiacciamenti, delle sue composizioni allusive di vario genere, persino antropomorfiche. Citerò al riguardo il trionfalismo drammatico di quella specie di trofeo che è la “Composizione”, il trasparente ecumenismo di cerchi sovrapposti, intitolato “Uniti” ed infine i due singolari “Personaggi”, sempre nel 1964, cui seguiranno nell’ anno successivo ammonitrice “Foresta” e l’ altrettanto esplicita “Scatola a sorpresa”. Dopo una pausa improntata ad una palese raffigurazione, sia pure in chiave astratta, ed ottenuta con l’ assemblaggio di ritagli di legno (“Città”e “Cattedrale” del 1965), lo scultore ritorna al metallo ed a lancinanti tensioni di forme – ora bloccate, ora aperte con taglienti aculei – sempre riferibili ad una sorta di naturalismo (“Fiore”, 1966 e “Ironia”, 1967). C’è qui l’ accentuazione di ogni possibile ferrigna asperità, caratteristica che di lì a poco si unirà ad un ben diverso equilibrio di strutture curvilinee dal chiaro dinamismo (“Metamorfosi” e “Rivoluzione” del 1969 “Stacco” del 1970). Con la grande “Sutura”, sempre del 1970, Scarabelli individua un tema che poi svilupperà variamente anche con l’ uso del cristallo; la grossa lastra di metallo, compressa, piegata e squarciata, ha i suoi lembi cuciti da una fune di acciaio. Si crea così uno spazio inventato e si assiste ad una continua scommessa con il vuoto, sempre che l’ idea della ferita e della lacerazione non prevalgono. Altrove tale sorte di scommessa riguarderà la collocazione stessa della forma, il suo equilibrio, tanto che non si sa bene se quest’ ultimo sia stato infranto ricomposto (“Sfracelona”, 1975). Il principio dello piazzamento, così caratteristico in tutta l’ opera di Scarabelli, piazzamento quale continuo rimettere in discussione forme ed immagini, è stato insomma portato alle estreme conseguenze e non per nulla, più di una volta, si è posto l’ accento sulla carica ironico-fantastica del lavoro dello scultore modenese, su quell’ aggressività peculiare alla sua ricerca sia sul piano morfologico, ma ancor di più per quanto attiene l’ evocazione di particolari associazioni di idee in chi osserva. Potremmo parlare addirittura di suggestioni metamorfiche e di evidenti metafore dell’ oggetto-scultura, scaturite dalla penetrante ricognizione dell’ artista e da quel suo atteggiamento che per certi risvolti potrebbe apparire addirittura lucido, se non in assoluto, almeno in parte. Pure nelle opre più recenti, l’ uso di resine sintetiche predomina, con plastica gestualità (nelle “Pagine”) o si unisce al metallo, quale umore vitale, (es. “Sbudellona”, 1981 e “L’abito non fa il monaco “, 1983), l’ atteggiamento di fondo di Scarabelli non è mutato. La scelta di questa sostanza è intimamente legata alla forma che lo scultore di lì apoco tradurrà in atto. La materia insomma viene adoperata nell’ esaltazione delle sue peculiarità per l’aderenza che dimostra all’ idea formale prescelta; costituisce quindi un puro e semplice fatto linguistico all’ interno del quale prevale una concezione organistica simbolica. Scarabelli pertanto è passato dai reperti dell’ archeologia industriale ad uno dei prodotti più raffinati della tecnologia di oggi, proseguendo, senza alcuna soluzione tecnologica di oggi, proseguendo, senza alcuna soluzione di continuità, in quel suo così dinamico discorso sulla scultura come linguaggio.       

 

(Roma aprile 1984)

Davide Scarabelli alla conquista di Roma

 

Lo scultore pavullese ha smontato da pochi giorni una interessante mostra delle sue ultime opere ospitata alla Galleria Artivisive di Roma. In considerazione del successo ottenuto, pubblichiamo una nota critica di Luigi Lambertini.

 

I materiali che Scarabelli usa per le sue sculture e il procedimento che segue costituiscono una presa di contatto diretto con la realtà; presa di contatto che porta lo scultore a divenire interprete di una situazione che, analizzata in profondità, per certi aspetti viene sublimata. L’individuazione di strutture e il montaggio di elementi diversi – solitamente sono rottami scovati in depositi o officine, altre volte si tratta di elementi originali sempre provenienti dal mondo della meccanica, che per la loro forma hanno suggestionato lo scultore – sono da intendersi infatti come la esplicazione di una indagine, di una continua sperimentazione conoscitiva che offre all’artista la possibilità di reinventare ora con l’equilibrata giustapposizione di diversi pezzi, ora con la loro deformazione e sagomatura, presenze e testimonianze allusive di undubbio fascino.

Questo tipo di operazione ha radici assai lontane che testimoniano, d’altro canto, un’attenta assimilazione di stilemi culturali dai quali Scarabelli si è mosso per esprimersi, di volta in volta, dando forma alla sua naturale esigenza di tramutare in fatto scultoreo, dai precisi significati, brani di cose che in precedenza non erano stati ancora “scoperti” o individuati da questo punto punto di vista. Al riguardo si potrebbero chiamare in causa desinenze Dada e Surrealiste e quindi venire a Gonzales, a Cèsar ed anche a Tinguely e Chillida. Il che – si badi bene – va accettato nel senso già chiarito evitando ogni fraintendimento che circoscriva ingenerosamente la continua invenzione di forme del giovane scultore.

Il comportamento di Scarabelli, lo abbiamo già accennato, nei confronti della realtà, unitamente ad una forte carica fabulistica, è essenzialmente  un insieme di atteggiamenti critici che risolve, tramite le varie ipotesi scultoree, situazioni e stati d’animo la cui motivazione è legata anche a come il processo operativo si esplica e si definisce.

E’ l’attuale mostra che riassume il percorso della sua opera fin dalle origini è una riprova di quanto affermato. Attraverso le numerose sculture infatti è agevole seguire l’indagine formale e notare come l’attenzione dell’artista, a seconda dei periodi, si sia soffermata su elementi o strutture che poi sono divenuti i motivi che hanno contrassegnato le differenti fasi. Anche quando la ricerca e la puntualizzazione di un tema si basano su modulazioni e invenzioni di forme semplici (ad esempio, il cerchio) si avverte subito quanto questo gioco grafico, che poi è tutt’altro che gioco, abbia implicita nella dinamica del gesto, che è stato come bloccato e oggettivato dal rigore della immagine, una palpitazione tale da superare l’astratta concisione della forma medesima.

L’evoluzione della linea si sostituisce qui al montaggio, all’accostamento di diversi materiali , però osservando con attenzione, non si discosta mai del tutto dal processo del montaggio stesso. Intendiamo dire che, nonostante il differente risultato formale e le intenzioni che lo hanno sollecitato, esiste sempre una scelta, una interpretazione in chiave plastico spaziale, del materiale in oggetto e, se negli altri casi l’opera finita è dovuta ad accostamenti, suture e contrapposizioni, nell’esempio che stiamo trattando Scarabelli raggiunge il risultato con il conferimento di una nuova forma che equivale all’aggiunta di qualcosa di diverso a quanto preesisteva.

Un discorso a parte meriterebbero singolarmente le varie sculture e si avrebbe modo così di indagare la loro carica espressiva; limitiamoci a dire che Scarabelli al momento della costruzione non si pone alcun problema se non quello di scoprire da scultore il linguaggio dei vari elementi che manipola e monta. Se successivamente si possono leggere dei significati e, al limite, proporre delle interpretazioni simboliche, ciò è dovuto essenzialmente alla carica fabulistico-fantastica che ogni opera viene ad avere nel suo essere fondamentalmente scultura.

 

Luigi Lambertini