LUIGI LAMBERTINI
Quando Davide Scarabelli parla delle sue sculture, le parole escono a raffica e con esse immagini di cose e di oggetti, proposti quasi per essere, sia pur verbalmente, toccati e soppesati come se fossero davvero reali nella loro concretezza, tanto è forte e pulsante nell’artista il piacere per l’oggetto in sé e per la sua forma, ma non soltanto.
E’ quasi una frenesia inarrestabile; è, in altre parole, la gioia di svelare un mistero recondito, continuamente reinventato e riscoperto da Scarabelli in qualcosa che essendo, come vedremo, nient’altro che un rottame, se pur possiede una sua magia, non era certo nato con quella destinazione; il mistero dunque dell’oggetto, meglio, la scoperta della sua provocazione fantastica.
Questo è il punto. Come vedere la realtà, come muoversi attraverso essa e riscoprirla, esserne vittoriosamente partecipi, integrarvisi senza finirne schiavi, mortificato dall’anonimato, dallo stereotipo del consumo, della meccanica di un dare e di un avere, di un adoperare e di un rifiutare subito, dello scartare ciò che prima veniva salutato dall’entusiasmo, magari un tantino infantile, per la novità, per l’oggetto nuovo di fabbrica.
Ogni epoca ha lasciato le sue tracce, i suoi monumenti, ricchi o poveri, a seconda del caso, che sono vestigia dell’uomo e delle sue opere, del suo orgoglio e delle sue contraddizioni, delle sue angosce, delle sue speranze e della sua fede.
Wiligelmo scolpiva nel Duomo di Modena per la gloria di Dio e la salvezza dell’umanità e si misurava con la scheggiosa durezza di quel marmo che, secoli dopo, avrebbe lasciato apparire toni di rosso, quasi che si fosse cercato di uniformarlo al colore risonante del cotto dei mattoni della superba fabbrica del Lanfranco.
Cosa lascerà allora il secolo XX, ammesso che si riescano a salvare le grandi testimonianze del nostro passato dall’inquinamento e da altro ancora?
Forse resterà la formula della fissione nucleare o il prototipo di un antenato dei futuri demiurghi dell’umanità, i computer.
Speriamo che non sia così soltanto, e soprattutto in una chiave tanto negativa.
Ma, se adesso, cavando ora qua ora là, vengono ancora alla luce delle selci, tra millenni se ancora vi saranno archeologi, costoro dovranno confrontarsi con una miriade di bottigliette, di sacchetti e di altri oggetti di plastica, tanti da riempire – se avranno un qualche interesse – depositi e depositi di musei, come tuttora accade con le anfore olearie, e troveranno inoltre spezzoni di motori, carcasse arrugginite, quali enormi crani, di macchine belliche o soltanto familiari scatolette, una volte lucide e colorate per il piacere di gite ferragostane.
Lasciamo tempo al tempo e rientriamo in una dimensione meno lata, all’interno della quale tuttavia sussiste qualcosa di questa proiezione che ognuno potrà interpretare a suo modo; superati i tempi storici e le ere connesse, ritorniamo ad una dimensione della quotidianità, ad un rapporto più stretto con ciò che ci circonda.
Pure in questo caso due sono le possibilità che si presentano: essere condizionati sul piano esistenziale da quello che è in fondo un anonimato alienante oppure scavare al suo interno alla ricerca di quegli stimoli e di quei motivi fantastici che nonostante tutto la realtà dei nostri giorni possiede.
Ed è quanto davide Scarabelli compie con la sua scultura al fondo della quale esiste per l’appunto un’indicazione di questo genere.
Certo, vi sono anche altre motivazioni, ma il discorso di base mi sembra che sia proprio questo e cioè una sorta di poetica integrazione con i tempi moderni, usando come tramite quelli che forse in futuro saranno dei reperti, mozziconi di una precisa stagione.
Sotto tale profilo pertanto quella singolare golosità di Scarabelli per il piacere della forma di un oggetto qualsiasi, di un pezzo di macchina, tubo, dado o bullone, centina od altro ancora, golosità, dicevo, tutta particolare di Davide, non è più soltanto ed unicamente ascrivibile ad un fatto dettato da una curiosità e da un puro e semplice entusiasmo di tipo formale.
Il rottame, il reperto di un’archeologia industriale inarrestabile, rappresenta per lo scultore modenese un punto di contatto con la realtà dei nostri giorni, è, in altre parole, una sorta di cerniera che lo lega al presente ed al passato e che lo porta a proiettarsi in avanti ed in più direzioni sul piano fantastico.
Mi spiego meglio:se infatti questo suo atteggiamento, che è basilare nel suo lavoro, lo fa disancorare dal contingente e pertanto risulta essere una sorta di proiezione al di là dei confini di un certi tipo di realtà, contemporaneamente, per le implicazioni fantastiche che tutta la sua opera possiede, costituisce a sua volta una palese provocazione per il destinatario dell’opera stessa.
E’ come dire che, mentre ogni scultura, secondo certe regole compositive o di assemblaggio, si distacca dalla originaria destinazione delle parti da cui è costituita, al tempo stesso, e proprio per questo, diviene un costante suggerimento di immagini, ma anche di riflessioni per chi guarda.
L’aspetto formale, dunque, non è più soltanto fine a se stesso; c’è dell’altro ancora che lo travalica e che salda la scultura in sé ai momenti che viviamo, ai tempi che l’hanno generata di cui è un riflesso.
In questo senso ritengo vada individuato quel lungo filo – è ormai ventennale – che coerentemente caratterizza l’opera di Scarabelli; in questo senso trovano pure diritto di cittadinanza le numerose definizioni e le letture fatte da vari studiosi (ivi compreso chi sta scrivendo), e non solo a livello di semplici proposte.
Sto pensando ad indicazioni di notevole interesse a partire da quella di Renzo Margonari che nel ’69 fu tra i primi ad impegnarsi in un esame, necessariamente acerbo come del resto lo era l’opera dello scultore, esame pur tuttavia ricco di motivi, che sarebbero poi stati confermati nella progressione di un discorso apertissimo e davvero dialettico da parte dell’artista; ebbene, Margonari già allora puntava ad enucleare una “componente fantastica”, “una nuova immagine di vita”.
Un paio di anni dopo (Scarabelli aveva ulteriormente definito i caratteri della sua ricerca) ritenevo che il suo particolare recupero e montaggio di strutture e di forme fosse da ascriversi ad una “indagine e sperimentazione conoscitiva” che avveniva per “sintesi allusive”, non senza aspetti ironici e grotteschi, tanto da rendere possibile financo una lettura “in chiave simbolica”.
Giuseppe Marchiori avrebbe poi nel 1972 unito – la sfumatura ha un suo peso – all’umore fantastico “un tono di ironico divertimento” confermo inoltre quanto avevo scritto circa la posizione di Scarabelli nei confronti della realtà come “uomo coscientemente inserito nella società che lo circonda nella quale avverte l’esigenza della riaffermazione dei valori dell’individuo”.
Mentre Germano Beringheli, nell’anno successivo perveniva all’individuazione di una particolare “carica emblematica” puntando su accenti neometafisici, Franco Solmi nel 1975 riprendeva l’argomentazione e, ridimensionata una forse eccessiva “giustapposizione di momenti (l’organico, l’inorganico il naturale e il febbrile, il reale e il fantastico)”, compiuta sino allora, giungeva ad evidenziare, all’interno di un siffatto “rapporto – distacco dell’artista di quel che diciamo irreale”, il “rilievo delle interiore processualità che della dialettica è la condizione prima.
Enrico Crispolti infine, nel ’76, avrebbe posto l’accento su aspetti perfino onirici e su “emblemi nei quali riconosce una propria condizione esistenziale, di declinarle in uno scandaglio psicologico ed inquieto”. Come si vede le argomentazioni, sarebbero altre ancora, non mancano di sfaccettature che, a loro volta, sono lo specchio evidente della poliedricità dell’opera di Scarabelli tuttora intento, come venti anni fa, a “scoprire da scultore il linguaggio dei vari elementi sui quali intervenire, ora modificandoli, ora individuandoli nella loro interezza, per procedere poi con precisi ritmi al loro montaggio. Abbiamo un’operazione che si basa su di un atto che è fondamentalmente critico, per l’appunto su di una “sperimentazione conoscitiva”.
In tale senso il lavoro di Scarabelli trova una sua collocazione nella grande pagina della scultura contemporanea, in quel dibattito che chiama in causa ben più di una desinenza e che per siffatta complessità di integrazioni, denota la puntualità della ricerca dello scultore modenese.
Alla sua innata invenzione di forme si abbina insomma una singolare curiosità intellettuale. Fondamentale al riguardo fu l’ incontro con Quinto Ghermandi, allorchè quest’ ultimo nel 1964 venne chiamato a dirigere a Pavullo una “Scuola artigiana per la lavorazione del ferro e della pietra”. Se infatti l’ attenzione critica di Davide – a quel tempo dipingeva – aveva avuto già modo di esplicarsi con soggiorni e viaggi a Parigi e Roma, fu proprio con Ghermandi, del quale era divenuto assistente, che trovò il suo definitivo indirizzo nella scultura; da qui il piacere della costruzione di un’ immagine, della lettura di un percorso in una superficie sino a scendere al suo interno,nel suo mistero di realtà tangibile e definitiva nello spazio. I riferimenti, per rendere più concreta l’ area storica cui ho appena accennato, sono numerosi e non si limitano unicamente all’ aspetto formale. C’è infatti, a ben guardare, all’ interno di tutta la vicenda che si dirama dalle avanguardie storiche, una inquietudine esistenziale che si contrappone, oltre al resto, alle presunte certezze, non soltanto estetiche, del passato e che coincide anche con la ricerca di una nuova identità. La menzione per tanto della stagione surrealista e prima ancora di quella futurista, cubista e Dada, delle esperienze sull’ oggetto trovato (Ricasso, Schwitters, Duchamp ecc. ), delle lezioni che vanno da un Gonzales a Chillida e Tinguely, ai nostri Colla e Garelli, a quella di Cèsar – prima con le “Colate” di poliuretano espanso – la menzione di tutto ciò, dicevo, non costituisce forse, e con le motivazioni più articolate, un indispensabile retroterra per un attenta lettura dell’ opera di Scarabelli? Ed se ora si vuol considerare rapidamente per esempi il suo lavoro sino ad oggi, non si può non soffermare l’ attenzione su di un primo gruppo di opere degli anni 1964-’65. Già qui il rottame industriale serve a creare, attraverso accentuazioni della sua espressività, ottenute con lacerazioni e schiacciamenti, delle sue composizioni allusive di vario genere, persino antropomorfiche. Citerò al riguardo il trionfalismo drammatico di quella specie di trofeo che è la “Composizione”, il trasparente ecumenismo di cerchi sovrapposti, intitolato “Uniti” ed infine i due singolari “Personaggi”, sempre nel 1964, cui seguiranno nell’ anno successivo ammonitrice “Foresta” e l’ altrettanto esplicita “Scatola a sorpresa”. Dopo una pausa improntata ad una palese raffigurazione, sia pure in chiave astratta, ed ottenuta con l’ assemblaggio di ritagli di legno (“Città”e “Cattedrale” del 1965), lo scultore ritorna al metallo ed a lancinanti tensioni di forme – ora bloccate, ora aperte con taglienti aculei – sempre riferibili ad una sorta di naturalismo (“Fiore”, 1966 e “Ironia”, 1967). C’è qui l’ accentuazione di ogni possibile ferrigna asperità, caratteristica che di lì a poco si unirà ad un ben diverso equilibrio di strutture curvilinee dal chiaro dinamismo (“Metamorfosi” e “Rivoluzione” del 1969 “Stacco” del 1970). Con la grande “Sutura”, sempre del 1970, Scarabelli individua un tema che poi svilupperà variamente anche con l’ uso del cristallo; la grossa lastra di metallo, compressa, piegata e squarciata, ha i suoi lembi cuciti da una fune di acciaio. Si crea così uno spazio inventato e si assiste ad una continua scommessa con il vuoto, sempre che l’ idea della ferita e della lacerazione non prevalgono. Altrove tale sorte di scommessa riguarderà la collocazione stessa della forma, il suo equilibrio, tanto che non si sa bene se quest’ ultimo sia stato infranto ricomposto (“Sfracelona”, 1975). Il principio dello piazzamento, così caratteristico in tutta l’ opera di Scarabelli, piazzamento quale continuo rimettere in discussione forme ed immagini, è stato insomma portato alle estreme conseguenze e non per nulla, più di una volta, si è posto l’ accento sulla carica ironico-fantastica del lavoro dello scultore modenese, su quell’ aggressività peculiare alla sua ricerca sia sul piano morfologico, ma ancor di più per quanto attiene l’ evocazione di particolari associazioni di idee in chi osserva. Potremmo parlare addirittura di suggestioni metamorfiche e di evidenti metafore dell’ oggetto-scultura, scaturite dalla penetrante ricognizione dell’ artista e da quel suo atteggiamento che per certi risvolti potrebbe apparire addirittura lucido, se non in assoluto, almeno in parte. Pure nelle opre più recenti, l’ uso di resine sintetiche predomina, con plastica gestualità (nelle “Pagine”) o si unisce al metallo, quale umore vitale, (es. “Sbudellona”, 1981 e “L’abito non fa il monaco “, 1983), l’ atteggiamento di fondo di Scarabelli non è mutato. La scelta di questa sostanza è intimamente legata alla forma che lo scultore di lì apoco tradurrà in atto. La materia insomma viene adoperata nell’ esaltazione delle sue peculiarità per l’aderenza che dimostra all’ idea formale prescelta; costituisce quindi un puro e semplice fatto linguistico all’ interno del quale prevale una concezione organistica simbolica. Scarabelli pertanto è passato dai reperti dell’ archeologia industriale ad uno dei prodotti più raffinati della tecnologia di oggi, proseguendo, senza alcuna soluzione tecnologica di oggi, proseguendo, senza alcuna soluzione di continuità, in quel suo così dinamico discorso sulla scultura come linguaggio.
(Roma aprile 1984) |