Prof. Davide Scarabelli Via Santi, 1 41026
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ENRICO CRISPOLTI

 

Scarabelli è uno scultore indubbiamente di “vocazione”, e lo è chiaramente da un decennio, con una qualità ed una originalità di risultati che va riconosciuta. Di “vocazione” non vorrebbe dir nulla, o meglio potrebbe prestarsi ad un senso soltanto retorico (reazionario), se non lo si intendesse esattamente come una naturale disposizione a costruire l’immagine nell’assemblaggio del metallo per saldatura, come lo fu storicamente per Gonzales, o Ricasso stesso, o David Smith, o il primo César, o il nostro Colla.

Quel modo di suscitare liberamente ma vividamente un’eventualità, che spesso è presenza anche ponderalmente prepotente, d’immagine, è subentrato alla vecchia idea della vocazione plastica dello scultore, al suo saper costruire modellando (plasticando) l’immagine, tradizionalmente per “via di levare”, come mentalità riproponendosi anche quando il “medium” era la terra. Il metallo, operato direttamente, non accetta sottrazioni, scavi, ma solo aggiunzioni, innesti, aggregazioni, assemblaggi, e anche attorno alla figura umana (come aveva insegnato, non dimenticato, Garelli). Accetta cioè un lavoro soltanto nei termini di un lavoro fabrile, originariamente extra – artistico, in un certo modo, in senso aulico, perché più prossimo al più modesto mestiere siderurgico e meccanico nella sua elementarità.

E quella scultura in metallo è nata proprio a margine del consumo di oggetti quotidiani, o a margine del ciclo produttivo siderurgico e della metallurgia primaria dalle montagne di scarti, ricostruendo dunque dalla materia bruta l’immagine, accettando il dialogo del suggerimento, reinventando insomma sul posto.

Una scultura diversa, in certo modo d’occasione, non forzosamente di soli “oggetti trovati”, ma reinventata sul trovato, suscitata e colta occasione per occasione, elaborando uno spunto, uno stimolo inventivo. Ci sono scultori di grossa qualità, ma la cui mentalità squisitamente plastica, non sopporta una tale aleatorietà immaginativa (il caso di un Somaini, per esempio). Ma quella aleatorietà è anche libertà, ed è anche in fondo appunto un indice di maggiore fedeltà al piano fabrile del lavoro, al piano cioè più umile, ma più concreto nelle referenze esistenziali, dall’oggetto residuo al fare, dallo scarto al gesto che lo riscatta, al lavoro diretto con la saldatura autogena.

E’ il dominio appunto che Scarabelli ha scelto fin da circa dieci anni fa, e che da allora ha frequentato con tenacia e umiltà, con volontà di costruire: esattamente di costruire le immagini ipotetiche di un suo parco onirico. Gli emblemi nei quali riconoscere una propria condizione esistenziale di declinarla in uno scandaglio psicologico sottile ed inquieto. Ci sono dei momenti tematicamente distinti nel suo percorso, che pure non ha fratture, come quello di un fare quotidiano, fabrile ed operaio, che coincide con il proprio identificarsi esistenziale.

Più che mai infatti credo vero che per Scarabelli il fare sculture, il costruire immagini ed emblemi di proprio riscontro onirico, è un conquistare una propria identità umana prima che culturale, ma culturale anche, cioè di pienezza critica di tale umanità. Ma Scarabelli non concepisce atti veramente mentali, proposizioni culturali astratte ed evasive: cultura è il traguardo di un fare che è fantasia ed intelligenza proiezione esistenziale totale, dedizione, ma ove il fare appunto è il mezzo, è il veicolo, della conquista, è lo è in modo condizionante.

La scultura per Scarabelli è traguardo culturale raggiunto nella pienezza di una partecipazione esistenziale, proprio perché il coinvolgimento vi è totale a livello di lavoro manuale, fabrile, operaio appunto, e a livello immaginativo, di sogni, di incubi, di fantasie, di emblemi, riscontrati dal proprio patrimonio personale a quello ancestrale della sua terra, della cultura materiale che lo circonda a Pavullo, sull’Appennino modenese. In una prospettiva dove il suo fare s’assimila spontaneamente al fare dell’artigiano – contadino, al suo lavoro come immediato  coinvolgimento esistenziale, su fatti esistenziali primari (legati ai grandi cicli naturali).

Ci sono momenti tematicamente distinti, dicevo, nel percorso del lavoro di scultore di Scarabelli lungo questi circa dieci anni: e sono certo almeno un momento fortemente organicistico, dieci anni fa, attento, in modi molto personali e con esiti assai notevoli, ai motivi della natura (fiori, ecc.) reinventati strutturalmente per allusioni e analogie, ma già appunto con lavoro di assemblaggio fabrile diretto. Intorno al ’69 una ricorrenza di arabeschi articolati nello spazio di gesti in definizioni lineari. Ma ecco poi negli anni Settanta riaffacciandosi più fonda la vocazione allo scandaglio immaginativo organicistico, riscoperto però con una notazione di profonda drammaticità, spesso tragedia: ecco enunciarsi le emblematiche fratture – suture. E non sarebbe difficile, credo, sottolineare nel suo lavoro dall’inizio degli anni settanta a oggi un senso quasi violento nel rapporto con il metallo, non solo le fratture, di lastre come di calotte, ma gli stessi movimenti organici, turgidi, e aggressivi nella definizione di una materia che è chiaramente primarietà metallica, peso fisico terreno del metallo. In questi ultimi anni il momento organico entra nel gioco allusivo in frizione con altri elementi, quali ne è un dialettico aspetto contrastante: l’altro è in fondo quasi un momento meccanico (a volte nel prelievo di frammenti trovati). In effetti Scarabelli procede recuperando, aggiungendo, modificando. Il prelievo dell’oggetto trovato, un frammento meccanico particolarmente provocatorio, o una calotta, o altro, entra in un momento di metamorfosi immaginativa che ha una complessa gamma di risonanze, e che non esiterei a trasferire ancora sul piano delle giustificazioni oniriche. Oggi poi la resina, che interviene accanto  alle parti in ferro e in acciaio, permette una duttilità e una complessità ulteriore dell’immagine, nei suoi diversi momenti. E appunto da un’organicità filtrata attraverso una dimensione che, ripeto, mi sembra realmente onirica.

Il gioco tuttavia non si esaurisce in queste sculture, nell’esibizione dialettica di un incontro organico – meccanico, giacchè l’immagine nasce dalla compenetrazione matemorfica dei due elementi, piuttosto che dalla chiara enunciazione del loro contrasto. Il gioco più sottile invece è l’allusività a una sottointesa continua presenza, esistenzialmente quanto mai vera per  Scarabelli, delle culture materiali, che circondano il suo ambiente eminentemente agricolo e non cittadino. In questo senso mi sembra chiaro che Scarabelli si appropria di elementi trovati, e allusivi per diretta origine a tale culture materiali locali, proprio come lessico elementare specifico sul quale organizza poi il proprio discorso di assemblaggio e metamorfosi immaginativa. O, meglio, nei soprassalti onirici, che mi sembra – pur nel finale controllo razionale nel concreto lavoro – siano all’origine dell’impasto immaginativo tipico delle sculture di Scarabelli, affiorano continuamente riferimenti a immagini, oggetti, suggestioni, dell’area – estremamente prossima a lui del resto – di tale culture materiali.

Insomma i termini del rapporto sono nel sottile rimando fra storia personale, pescata in gorghi oscuri nel momento subconscio e illuminazioni referenziali che designano in valenza onirica un accenno di rimando a quegli elementi locali, al loro patrimonio, alla loro ancestrale verità d’uso e di nozioni, al peso umano insomma della loro storia.

Così, mi sembra, Scarabelli implica, con mezzi moderni e fatti propri, una storia antica, la storia di una cultura agricola che lo circonda, la implica, dico, dentro la dimensione di una propria e molto personale estrazione di fantasmi interiori, di emblematiche di riscontro esistenziale molto personale, persino in certo modo solitario (un’avvertenza su certo clima “nero” dell’immaginazione scarabelliana potrebbero offrirlo le sue impegnate incisioni, nei gorghi dei segni fra acquaforte e acquatinta).

Quest’eco linguistica delle culture materiali locali non sovrasta la storia interiore che Scarabelli ripercorre sul tracciato di una volontà strenna di autoriconoscimento: tuttavia vi è indubbiamente presente, e in certo modo (e precisamente nel modo del principio stesso di appropriazione e trasformazione), la caratterizza, aggettiva e in fondo la invera. Perché il lavorare che giustifica esistenzialmente l’autoriconoscimento che Scarabelli cerca non è un lavorare astratto, ma un lavorare collocato: cioè con mezzi fabrili, in un tessuto sociale dato, a riscontro con tecnologie artigiane, “povere”, ma infinitamente sapienti.

 

(Da catalogo gall. Giorni – Firenze 1976)