GERMANO BERINGHELI
I primi interventi significativi della scultura di Davide Scarabelli vanno riscontrati in una proposizione prospettiva tra casualità e programma.
L’agglomerazione casuale, elevata ad estetica attraverso il superamento di una sorta di “realismo d’oggetto”, sui generis, è il primo punto di fissazione del suo lavoro. Come ebbero a rilevare Margonari e Lambertini la reificazione dell’oggetto trovato volse ben presto all’evento di una struttura oggettiva, frutto di una modificazione, in senso butoriano, che intersecava il circolo della pura esteticità formalistica.
L’atteggiamento originale fu quello di una relazione vitale con i materiali “trovati” la cui indeterminazione significativa assumeva episodicità iterative e il cui fine stava nel dar senso a riferimenti diretti con la sfera esistenziale. Poteva accadere così che attraverso la fenomenologia dell’attenzione Scarabelli portasse la propria meditazione (o la propria esperienza immaginativa) appunto dalla casualità dell’oggetto trovato alla programmazione di una sua condizione nuova; condizione, se vogliamo, di primarietà, di archetipo, assumendo il mito di un principio originario e formativo come possibilità della trasformativi successiva.
I legni de “La cattedrale” (1965) e i materiali siderurgici de “La foresta” (1965) investono subito i problemi di fondo della operazione artistica: creare cioè delle immagini autonome, pregnanti, tali da farsi lo scandaglio più profondo per attingere una realtà che se, nel caso della scultura di Scarabelli, appare tuttaprima antropomorfica, di già è sofferente (non si dimentichi che le matrici sono organiche) di tutti quegli intingimenti che coinvolgono metafore e nalogie.
“L’uomo soffre” (1967) porta fuori dalle secche del naturalismo informale le istanze di una apertura continuamente coinvolta (come in bilico) tra soggettivismo dei materiali e oggettivismo della rappresentazione.
E’ l’intenzione gnoseologica a provocare questo tipo di disponibilità verso il reale, individuato dapprima nella possibilità del mezzo, dei materiali, e come fuso poi in una sorta di “natura” dove angoscia e ironia prelevano i segni della propria organicità biologica.
Uomo o insetto impalato, la metafora circola verso quei tempi libici della condizione esistenziale che molta neofigurazione simbolistica ed esoterica (penso ad un Biasi) aveva svelato negli anni appena precedenti. Qui stava il rischio maggiore della scultura di Scarabelli che avrebbe potuto ricondursi del tutto alla matrice surreale (e sfiorò invece quella dada) e ritrovarsi in quelle immagini emblematiche e inquietanti che fanno la poetica della memoria piuttosto che quella del qui e ora. E’ stato invece il dadaismo nuovo, quello di tipo costruttivo che avuto nella Navelson e in Rauschenberg i protagonisti iniziali, a intrigare Scrabelli per cui appariva più logica una sua significativa affinità (rilevata presto da Margonari) con Kemeny e quella (altrettanto puntualmente indicata da Lambertini con Gonzales).
Dal ’67, con “La colpa”, il processo astrattivo sembra abbandonare l’evocazione simbolica e già nello stesso anno “Rottura” sottolinea l’evidenza più chiara dello stacco dalla poetica del relitto.
Tecnicamente l’oggetto – rifiuto ha esposto tutte le proprie possibilità.
“Aggressiva” del ’68 è una corrispondenza lucida con lo spazio, un’opera dietro cui si cela una presenza “costruttiva” che si manifesterà ancora per tutto il ’69, non tanto nello spirito dell’ordinamento, nella fiducia nella bontà delle definizioni geometriche, quanto piuttosto nel bisogno di verificare le possibilità espressive delle forme esatte e del loro comportamento (o percorso) nello spazio.
Dada, o meglio neo –dada, è stato intanto fluificato dalla Pop e la declinazione ottemperante i modelli del purismo plastico riassumo, anche nella scultura di Scarabelli (“Divisi” 1969), valenze che se non sono ancora del tutto fantastiche (in pittura sta già apparendo un Battaglia) addensano stimoli emblematici. “Primo attore”, “Il giudice” stanno in questo spazio ideativo (quello “concettuale” per Scarabelli giunge focalizzato superbamente e senza concessioni mondane subito dopo, con “Suture”) realizzato a livello di elementi che chiudono verso una oggettività nuova le cui prospettive hanno inclusioni inventive notevoli : il naturalismo è del tutto superato anzi snaturato, diversa la disponibilità alle cose. L’immagine è estratta da un contesto che non sfiorerà più, in assoluto, quelle condizioni di gratuità che il frammento, l’oggetto trovato, in un modo o nell’altro finiscono sempre con l’esibire.
La carica emblematica spinge ora Scarabelli verso una inquietante coagulazione di atti (e dico proprio di atti e non di forme) che, sospinti sino a sfiorare gli accenti di una neo –metafisica, designano l’effettiva necessità di un intervento definitivamente liberato da qualsiasi condizione anteriore delle cose.
La stessa cultura, le stesse lezioni, assunte via via negli anni come attingimento inevitabile, scadono per effetto della logica ormai matura, tanto matura che la sua scultura può ora muoversi in una dimensione di estrema reversibilità. Tra casualità e programma la modificazione matura i propri eventi senza interruzione nel flusso temporale. In questa tensione possiamo ripetere per Scarabelli le affermazioni di Rauschenberg: “io sono nel presente; io cerco di celebrare il presente”.
(Dal catalogo mostra gall. La Panchetta – Bari 1973) |